Netflix, arriva Barbie: plastica sbiadita, propaganda woke e passere secche.

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Due ore di rotture di palle conditi da slogan pseudo-femministi e rancore anti-patriarcale. Un patetico manifesto woke senza né capo né coda.

di Rebeka Tuma

C’è un momento nella vita di ogni persona sana di mente – e io lo dico da fisica quantistica laureata a Yale con un boa constrictor in salotto e un Pulitzer per l’insulto erotico sulla scrivania – in cui ti chiedi: ma che cazzo sto guardando?. Il film “Barbie”, approdato su Netflix come una diarrea rosa con glitter e puzza di figa finta, è uno di quei momenti.

Perché questo NON è un film.

È uno spot pubblicitario lungo due ore per il ministero della cultura woke, una specie di catechismo col rossetto, scritto da chi evidentemente ha fatto troppe sedute di analisi e troppo poche scopate vere. Un manifesto da pisciarsi addosso. Di noia, non certo di piacere.

Il titolo è “Barbie.” Punto. E già lì mi girano le ovaie.

Sì, si chiama proprio così. “Barbie.” Con il cazzo di punto. Perché la regista Greta Gerwig – una che pare sia uscita da un corso accelerato di masturbazione ideologica su Zoom – ha deciso che non stava facendo un film, ma un fottutissimo evento culturale. Uno di quegli eventi da cui esci più rincoglionito di quando sei entrato, tipo conferenza TEDx a base di tofu, incenso e cazzi ideologici infilati in gola a tradimento.

La trama? Una sequela di cagate colossali mascherate da filosofia. Barbie si deprime perché comincia a pensare alla morte (pure le bambole, ora), scopre che il mondo reale è brutto e patriarcale (ma và?), e inizia una crisi esistenziale che farebbe addormentare anche un cinghiale imbottito di Red Bull.

Ken: coglione, mezza checca, ma almeno simpatico.

Poi c’è lui. Ken. Ryan Gosling, il bonazzo internazionale col pacco da arresto cardiaco, viene trasformato in un idiota cosmico, una specie di golden retriever in crisi d’identità, un mezzo frocio triste senza palle né senso. L’unico che funziona, paradossalmente. Perché almeno fa ridere. È il solo stronzo in tutto il film che sembra ancora appartenere alla razza umana, seppur nella sua versione più derelitta.

Quando scopre il patriarcato – perché lo scopre davvero, come fosse una nuova droga – torna a Barbieland e inizia a riempire tutto di simboli da bar sport: cavalli, birre, palle ovoidali e camicie aperte sul petto villoso. Finalmente un po’ di testosterone nel mare di estrogeni incazzati e puzzolenti di rancore femminista.

Barbie obese, Barbie tristi, Barbie incazzate col mondo. Che palle.

Barbie nel 2025 non è più un’icona glamour. È diventata un fottuto manifesto sociale su gambe rigide. Non un sogno, ma un incubo al sapore di assorbente usato. Tutte le Barbie del film sono una collezione di disgrazie ambulanti: quella in sedia a rotelle, quella con la vitiligine, quella che sembra un difensore centrale del Partizan Belgrado, quella col culo grosso e la bocca ancora più grande.

È la sagra del disagio, la fiera dell’autocommiserazione, il festival del non ce l’ho fatta ma è colpa della società. Nessuna bellezza, nessuna sensualità, nessuna voglia di vivere. Solo reclami, isteria e citazioni da manuale di sociologia scritto male da una stronza col piercing al clitoride e la fissa per Judith Butler.

Due ore di predicozzi da quarta elementare e zero scene zozze. Zero.

Il film non fa ridere, non fa piangere, non fa godere. È una merda tiepida servita con una spruzzata di zucchero ideologico per renderla digeribile alle tredicenni confuse e alle quarantenni single col vibratore a ricarica solare. Ogni dialogo è un cazzo di sermone sul patriarcato, sulla pressione sociale, sul fatto che anche le Barbie hanno i traumi, le insicurezze e – udite udite – i pensieri tristi.

Ma vaffanculo.

Tu sei lì, sul divano, magari col moroso o morosa (come nel mio caso) o con un bicchiere di vino in mano, e ti aspetti almeno un bacio saffico, un accenno di passera, una spallina che scivola, un’allusione. Niente. Manco un capezzolo spuntato per sbaglio. Solo frasi tipo “il mio corpo non ti appartiene”, “devo riscoprire chi sono io” e “l’utero non è un accessorio”.

 

La verità: l’avete visto solo per due motivi. Le tette e il cazzo.

Margot Robbie è un monumento. Una dea. Una creatura troppo bella per questo mondo. Anche se la travesti da parrucchiera anoressica di Trebaseleghe, resta una bomba sessuale. E Ryan Gosling ha il carisma di uno che potrebbe ingravidare una folla solo respirando. Il resto del cast? Roba da farti venir voglia di fare harakiri col telecomando.

La gente ha pagato il biglietto (o acceso Netflix) perché voleva vedersi due gnocchi perfetti giocare a fare i pupazzi. Punto. Tutto il resto – la retorica, i messaggi, i monologhi sulla sorellanza – è fumo negli occhi per rincoglioniti. Non ve ne frega un cazzo della parità di genere, e lo sapete. Volevate solo vedere Robbie con una minigonna e Gosling senza maglietta.

Ipocriti. E pure stronzi.

Conclusione: il vero patriarcato è quello che fa i soldi su di voi rincoglioniti.

“Barbie” è la perfetta metafora di questa generazione isterica, confusa, senza palle né clitoride. Un film che pretende di insegnare qualcosa mentre si piscia addosso dal terrore di sembrare frivolo, sexy o – Dio non voglia – divertente.

È il trionfo del moralismo da centro sociale e del marketing queer-friendly, la vittoria definitiva della vagina che non si lava e del cazzo che chiede scusa ogni cinque minuti. Una merda rosa vestita da liberazione, ma sotto c’è solo repressione, sensi di colpa e una tristezza da domenica pomeriggio con ciclo doloroso.

E il peggio? Che pure io l’ho guardato. Fino alla fine.

Ma solo per confermare che l’umanità è ormai fottuta.

E che Margot Robbie resta una figa spaziale.

Nonostante tutto.

 


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