Mariquita Ardiente accende la piazza, Luretta tenta di spegnerla col fiato corto e la sindrome da vigile urbano mancato
di Rina Passe
Domenica 15 giugno, Festa del Vino di Monfalcone. Il pubblico è raccolto, il prato è illuminato dal fuoco vivo di un’esibizione artistica di strada. L’artista, nota come “Mariquita Ardiente”, danza con le fiamme tra l’attenzione e l’ammirazione dei presenti. Una scena intensa, coinvolgente, culturale. Finché non arriva lui: Giorgio Luretta, presidente della Pro Loco Monfalcone, a spegnere – simbolicamente, ma non solo – l’incendio dell’arte con l’estintore dell’autoritarismo da sagra.
Senza alcuna qualifica pubblica, senza divisa, senza mandato, Luretta si avvicina e pretende l’esibizione di “permessi”. Non richieste di chiarimento, non un invito al dialogo: pretende. Tono inquisitorio, atteggiamento da sbirro mancato, sguardo da chi si sente più vicino a Franco Gabrielli che alla “Sagra della Nutria Gravida”. L’intimidazione è palese. L’epilogo prevedibile.
L’artista, che aveva regolarmente preavvisato la polizia municipale della propria performance – come confermato da testimoni e da un post pubblicato da Sergio Marini – si trova così ad affrontare un surreale interrogatorio da parte di un signore con una fascia tricolore immaginaria. E che nonostante ciò si arroga il diritto di chiedere l’esibizione di documenti come se fosse “el finanzier che ferma Busani sul confin de Caresana”.
Va precisato – a beneficio dei lettori e, soprattutto, del signor Luretta – che in Italia nessun cittadino privato ha il potere di chiedere documenti a chicchessia. Non lo può fare nemmeno un vigilante in un centro commerciale, figurarsi un patetico presidente di una cazzo di Pro Loco il cui mandato non comprende né l’ordine pubblico né il controllo identità. L’unico organo legittimato a chiedere documenti o autorizzazioni è quello composto da agenti di Polizia. Punto. Il resto è fuffa, teatro dell’assurdo, o – se vogliamo usare un termine tecnico – abuso.
E invece no. Luretta chiama la Polizia. Due agenti – probabilmente disorientati dall’inutilità dell’intervento – si presentano. Non per allontanare i disturbatori, ma per aggiungersi al siparietto. Non emerge (al momento) nessun verbale, ma le pressioni ci sono. Il clima si fa pesante, l’arte si piega all’arroganza, il pubblico si indigna. Non si segnala alcun pericolo, nessuna denuncia, nessun comportamento scorretto da parte dell’artista. Solo la pretesa che qualcuno, prima di accendere una torcia in una piazza, si inginocchi davanti a un ente inutile con una denominazione stanca.
Pro Loco: residuati bellici della cultura popolare.
Facciamo una parentesi di chiarezza. Una volta le Pro Loco servivano. Sul serio. Organizzavano le sagre, animavano il carnevale, accendevano la piazza. Ora servono quanto un freno a mano in una barca.
Oggi le Pro Loco sono feudi per pensionati col vizio della fascia tricolore e della briscola competitiva. Cerchie ristrette, autoreferenziali, che vivono di contributi pubblici come cozze attaccate allo scoglio dell’assessorato. Un circolo chiuso di “presidenti” che si passano la carica da decenni, come se fosse il telecomando della TV, sempre alla stessa persona.
Nel frattempo, il mondo è andato avanti. Le iniziative culturali vere – quelle fresche, quelle che attirano giovani, turisti, perfino residenti svegli – le fanno le associazioni private. Gente che si sbatte, che ha idee, che non si veste con il giubbino fluorescente per sentirsi importante.
Le Pro Loco invece organizzano ancora le stesse tre robe: il pranzo sociale per quattro vecchi incartapecoriti a base di pasta scotta e vino di merda, processioni con il gonfalone e gare di ricamo con regolamento del 1892.
Il problema non è solo l’inutilità. È che gestiscono soldi pubblici. Un mare di contributi che servirebbero a rinnovare l’offerta culturale, e invece finiscono in manifesti WordArt e gadget inutili con logo “Pro Loco 1967”. Nessun controllo, nessuna visione, nessun pubblico reale.
La verità è semplice: se domani sparissero tutte le Pro Loco, nessuno – tranne chi ci mangia – se ne accorgerebbe.
E poi ci sono loro: i Giorgio Luretta di turno. Uno qualunque, presidente di una di queste merde. Non è un poliziotto, non è un pubblico ufficiale, non è nemmeno un cazzo di vigile urbano – che già di loro sono dei frustrati con la sindrome da sbirro mancato. Ma lui si crede il questore di Monfalcone. Ferma la gente, chiede documenti, pretende rispetto. Il nulla col giubbotto. Un privato cittadino eletto da altri privati cittadini per organizzare le minkiate di cui sopra. Pretendere documenti da un’artista significa oltrepassare di molte lunghezze il proprio ruolo. Significa scambiare l’autorevolezza con l’autoritarismo. E soprattutto significa tradire l’idea stessa di cultura, sostituendola con il controllo.
Se Luretta si fosse limitato a osservare, avrebbe forse scoperto che Mariquita Ardiente non stava violando nulla. Stava creando qualcosa. In un Paese normale, un presidente di Pro Loco l’avrebbe ringraziata per l’arricchimento artistico spontaneo. A Monfalcone, invece, si chiama la polizia.
Body politic, body shaming.
Un piccolo inciso fisico, visto che spesso lo stile è sostanza: mentre Mariquita volteggiava agile e leggera tra lingue di fuoco, Luretta – visibilmente contrariato e affaticato – sembrava più un omino dell’olio cuore fuori servizio che un promotore di eventi. Con quella mascella contratta da stress e l’espressione da direttore delle Poste in sciopero, ha mostrato tutto il disagio di chi si sente escluso da una dinamica che non può controllare. Il suo corpo, prima ancora delle sue parole, urlava: “è meglio di me, fatela sparire”.
In sintesi: Mariquita ha continuato la sua esibizione. Il pubblico si è schierato compatto con lei. Nessun incendio, nessuna denuncia, nessun verbale. Solo un presidente di una “istituzione” sorpassata che, in una sera d’estate, ha ricordato a tutti quanto possa essere pericolosa l’ignoranza istituzionale unita all’invidia culturale.
La cultura non ha bisogno di bollini. Ha bisogno di spazio. E se lo spazio è occupato da chi si crede Napoleone con una fascia arrotolata nel cassetto, allora forse è ora di cambiare davvero le regole del gioco.