Perché l’infanzia di ieri ci ha resi uomini e quella di oggi ci regala amebe da touch screen
Di Christian Zuttioni
Io sono un bimbo del 1969. Un figlio legittimo di quell’Italia pre-digitale, pre-Netflix e pre-idiozia diffusa. Appartengo a una razza ormai in via d’estinzione: quella dei bambini che dovevano meritarsi il diritto di vedere un cazzo di cartone animato. Quelli che, se ti andava bene, alle sei di sera Maria Giovanna Elmi su Rai 2 ti annunciava l’arrivo di “Superman” e “Atlas UFO Robot”. E se tuo padre voleva guardare il telegiornale, o peggio ancora la partita, il tuo UFO Robot si attaccava al cazzo.
Per capirci: la TV non era tua. Era del padre. Del patriarca. Del capofamiglia. E se la guardavi, era perché non rompevi i coglioni, stavi zitto e speravi che nessuno ti notasse. L’infanzia era una lotteria, e se ti andava male, ti toccava l’ennesima replica di “Ironside”.
Cartoni animati come battesimo del fuoco
Il cartone animato non era intrattenimento. Era mitologia. Era religione. Era scuola di vita. Era violenza, morte, passione, onore, amore e vendetta. Era il nostro Iliade in technicolor. Era Shakespeare con i missili.
Mentre oggi i bambini si rincoglioniscono con Peppa Pig e l’influencer che apre le uova Kinder, noi ci formavamo guardando Actarus combattere per vendicare il pianeta Fleed. Goldrake era la metafora della diaspora, della guerra giusta, del sacrificio personale per un bene collettivo. Jeeg Robot d’Acciaio, figlio di un semi-dio e di una scienziata, combatteva per proteggere l’umanità intera. E noi con lui. Altro che Paw Patrol e i pompieri canini. Altro che Gattoboy e Superpigiamini. Quelle merde lì le trovi nei pannolini.
Quei cartoni ti insegnavano cos’è il dolore. Il rifiuto. La perdita. L’eroismo tragico. Lì, tra un missile centrale e un raggio protonico, imparavi la durezza della vita meglio che a catechismo. E quando Lady Oscar moriva, morivi dentro anche tu. E crescevi.
Il Sacro Avvento dell’Antenna Logaritmica
Mio padre, Claudio, classe 1941, non era un padre come gli altri. Era un riparatore radio TV e antennista. Uno che con le mani sapeva parlare all’etere. Uno che non aveva bisogno del Wi-Fi per ricevere segnali: li sentiva nelle ossa. Riparava radio e televisori quando ancora c’era il tubo catodico che minacciava di esploderti in faccia. Ma soprattutto, era un visionario. Prima ancora dell’epifania commerciale chiamata Berlusconi, lui aveva capito tutto: il futuro non era nella Rai dei preti, dei pipponi e delle ballerine vestite come catechiste. Il futuro erano le TV private, quelle dei porci, delle pubblicità urlate, dei cartoni giapponesi epilettici e delle tette alle undici di sera.
E allora, in un atto che oggi definirei mistico, installò sul tetto di casa la sacra antenna logaritmica. Il nome suonava già come un’arma segreta sovietica. Sembrava un incrocio tra un missile e una bacchetta magica. Una struttura d’acciaio che puntava dritta al cielo come una bestemmia contro il monopolio. E funzionava.
Grazie a quella roba metallica puntata verso l’ignoto, entrai in contatto con le TV private e Tele Padova, canale glorioso come l’impero di Goldrake. E lì, come una rivelazione biblica, trasmettevano Jeeg Robot d’Acciaio. Io, larva d’uomo, me lo guardavo tutto. Dall’inizio alla fine. Senza rewind, senza “riproduci dall’inizio”, senza “salta intro”. Lo guardavi o lo perdevi. E se lo perdevi, cazzi tuoi. Il trauma era tuo. E te lo meritavi.
La sacra disciplina del cartone
C’era un ordine nel caos. Un rigore implicito. L’orario era sacro, la sigla iniziale un inno nazionale. Nessuno fiatava. Nessuno rompeva i coglioni. Nessuno ti distraeva, perché sapevi che quel momento, quella puntata, sarebbe passata e basta. Una volta. Non tornava. E tu, coglione piccolo, se lo sapevi lo gustavi. Se non lo sapevi, imparavi a esserci. Imparavi il valore dell’attesa. Il concetto di opportunità. Il trauma pedagogico dell’irripetibilità.
Tutti zitti. Tutti ipnotizzati. Nessun cazzo di tablet in mano. Solo occhi sbarrati e cuore gonfio. Quando arrivava il momento clou – il missile rotante, la trasformazione, il bacio rubato – non esisteva più un mondo. Esisteva solo quel minuto. Un minuto d’eternità.
Bambini moderni: criceti su tapis roulant
Oggi invece? Oggi il bambino ha più opzioni di un trader della Goldman Sachs sotto anfetamina. Il cartone animato non è più un rito, è uno sfintere aperto da cui escono flussi di cagate animate 24/7. È fast food cognitivo. È pornografia emotiva. È vomito zuccherato di pixel inutili.
Secondo Nature Reviews Neuroscience (2022), il consumo iper-frazionato di contenuti audiovisivi digitali riduce drasticamente la capacità di attenzione sostenuta nei soggetti in età evolutiva. Tradotto: tuo figlio ha il cervello liquido ed entro i 3 anni gli diagnosticheranno una forma di ADHD livello 1000 e lo imbottiranno di così tanti psicofarmaci che neanche Janis Joplin in un rave.
Uno studio di Harvard (2021) ha rilevato che i bambini esposti a più di 4 ore al giorno di contenuti video sotto i 10 anni mostrano gravi carenze nella memoria a breve termine, nella capacità di astrazione e nella regolazione emotiva. Risultato? Guardano 47 episodi dei Paw Patrol e poi non sanno dove hanno il buco del culo. E neanche se l’hanno mai avuto.
Non parliamo poi della dipendenza. L’American Academy of Pediatrics ha definito l’uso compulsivo dei contenuti digitali sotto i 12 anni come “digital junk behavior”: un comportamento tossico, compulsivo, autodistruttivo. Letteralmente: tuo figlio è un tossico da Peppa Pig.
Scrolla, dunque non esisti
Una volta i cartoni erano guerra. Era trauma. Era morte. Goldrake combatteva, Jeeg si smembrava, Lady Oscar moriva sulla Bastiglia. C’era dolore. C’era sudore. C’erano valori e tragedia. Ora? Peppa Pig scoreggia in una pozzanghera. I Paw Patrol risolvono tutto con una carezza. Nessuno muore. Nessuno perde un braccio. Nessuno affronta un lutto. Il male viene sempre “riformato” e abbracciato in un arcobaleno. Ed è lì che il cervello infantile si sbriciola come un cracker vegano.
I bambini di oggi non guardano, scrollano. Non vivono il contenuto, lo consumano. Lo ingoiano come junk food algoritmico. E poi? Poi si dimenticano tutto. Perché tutto è uguale. Tutto è safe. Tutto è reversibile. Tutto è un cazzo di loop.
Byung-Chul Han – mica Povia – ci dice: “La società della prestazione ha ucciso l’altro, ora resta solo l’io che si consuma.” Il bambino moderno è il perfetto prodotto neoliberista: consumatore di se stesso. Scrolla, consuma, dimentica, riparte. E se qualcosa non gli piace? Skip. Avanti un altro. E via ancora di ADHD, ansia da stimolo, rincoglionimento cognitivo.
Il risultato? Crescerà un popolo di decerebrati emotivi, senza memoria narrativa, senza archetipi, senza fatica. Solo un pollice ipertrofico che swippa nell’infinito nulla. E poi ci chiediamo perché stanno male. Perché non dormono. Perché sono tristi. Ma l’infanzia non è gioia costante. È conflitto, è identità, è scontro con l’ingiustizia. Noi l’abbiamo vissuta. Loro la scrollano. E così, non esistono.
L’adulto molle che stiamo allevando
Il problema non è solo l’infanzia di merda. È l’adulto che ne deriva. Un adulto incapace di aspettare. Incapace di lottare. Incapace di perdere. Perché non ha mai visto perdere Jeeg. Non ha mai pianto per la morte di Lady Oscar. Non ha mai dovuto aspettare sette giorni per sapere se Conan avrebbe salvato Lana. È cresciuto con “riproduzione automatica” e “prossimo episodio tra 5… 4… 3…”.
Ed eccolo lì: l’adulto moderno. Un mollusco ansioso, dipendente, incazzato perché il Wi-Fi va lento. Uno che non sa stare in silenzio, che non regge un no, che non capisce la differenza tra trauma e disagio. Perché non ha mai avuto un trauma narrativo. Solo stimoli continui. Poi diamo la colpa al “PATRIARCATO” quando le cronache si riempiono dei vari Turetta.
Nostalgia? No. Lucido odio per il presente
Lo so già cosa diranno i coglioni woke: “eh ma questo è boomersplaining”, “eh ma ogni generazione dice che la successiva fa schifo”. No, stronzi. Qui non parliamo di nostalgia. Qui parliamo di un presente del cazzo. Di un’educazione emozionale amputata. Di un’umanità digitale abortita.
Quello che oggi viene spacciato per progresso è solo disfunzione mascherata. Un tempo, se un bambino era triste, gli si leggeva una fiaba. Oggi si butta su YouTube. Se è annoiato, gli si dà un iPad. Se è agitato, gli si danno 70 episodi di Bing. E poi ci si lamenta se diventa un adolescente con lo spettro autistico inventato da TikTok.
Conclusione: rieduchiamo i bambini ai cartoni (quelli veri)
Portate loro Goldrake. Fate vedere loro la morte di Oscar. L’arrivo di Tekkaman. La malinconia di Conan. Il trauma dell’addio di Remì. Togliete i tablet. Fategli sentire l’attesa. Fategli vivere la conquista. Regalate loro il trauma formativo. La tristezza educativa. Il dolore buono. Quello che ti plasma. Non quello che ti annienta.
E, soprattutto, fate in modo che il cartone animato torni al suo ruolo sacro: essere un primo grande trauma emotivo di una lunga vita piena di NO!!! Quello che ti sveglia. Ti forgia. Ti prepara. Ti spinge a diventare farfalla.
Non con lo swipe. Ma con gli occhi pieni e il cervello acceso.














