5 referendum, 5 colpi a vuoto. La sinistra ci prova (male), il popolo risponde (peggio)

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Affluenza al 27,48%, quorum manco col binocolo. L’ennesima masturbazione ideologica della sinistra finisce nel cesso. E adesso frignano pure.

Di Christian Zuttioni

L’Italia ha parlato, a modo suo. E ha detto una cosa molto chiara: “andatevene affanculo”.
Non con le parole, ma con l’astensione. Con quel silenzio che fa più rumore di mille comizi in piazza.

L’8 e 9 giugno 2025 si votava per cinque referendum, cinque quesiti su lavoro e cittadinanza, cinque “grandi battaglie” della sinistra sociale, radicale, sindacale, buonista e sfiatata.
E la gente, nella più solenne delle risposte democratiche, ha deciso di non andarci proprio.

Affluenza al 27,48%. Quorum? Sogni d’oro.

La sinistra voleva usare questo referendum come l’ennesimo giocattolo politico.
Un cavallo di Troia col muso sindacale e il culo pieno di agendine ideologiche.
I primi quattro quesiti sul lavoro erano una scusa, la foglia di fico per far passare quello che davvero interessava: la cittadinanza italiana agli stranieri dopo 5 anni.
E invece si sono beccati una pernacchia nazionale lunga due giorni e mezzo.

È stato un flop talmente fragoroso che se fosse successo a destra, La7 ci faceva una maratona di 72 ore con Mentana a sgranocchiare popcorn e Scanzi a piangere dalla felicità.

La sinistra voleva il plebiscito. Ha preso il plebiscoppio.

Partiamo dal principio. Cinque quesiti.
Roba tecnica, da addetti ai lavori. Contratti a tutele crescenti, licenziamenti illegittimi, appalti, contratti a termine, cittadinanza facilitata.
Tutto legittimo, per carità.
Ma tutto spacciato come “la battaglia epocale dei diritti”.
E in effetti di epocale c’è stata solo la figura di merda.

Perché quando l’80% degli elettori decide che non gliene frega un cazzo, il messaggio è chiaro: siete irrilevanti.

Ma la cosa bella è che ci credevano davvero.
Ci hanno messo la faccia, i soldi, i sindacati, le reti, i giornalisti embedded, gli intellettuali con l’eskimo.
La CGIL in testa, con Maurizio Landini che sembrava più un parroco in crisi vocazionale che un leader sindacale.
Elly Schlein che sorrideva convinta come una che ha appena scoperto TikTok.
Conte che ondeggiava tra un “dobbiamo proteggere i più fragili” e un “forse possiamo farcela”, mentre dietro di lui crollavano pure i gazebo.

 

E alla fine, zero.
Zero spaccato.
Il quorum non è arrivato neanche per sbaglio.
L’astensione è stata la vera valanga.
E ora comincia il pianto.

“È colpa dei fascisti!”

Naturalmente la colpa non è mai loro. Mai.
Quando perdono – e capita spesso – è perché qualcuno ha barato.
Stavolta il bersaglio è la destra:

“Le destre hanno sabotato la democrazia spingendo all’astensione”,
frignano in coro.

Peccato che nel 2003, quando i referendum erano due quesiti sull’articolo 18 e su una cagata sull’abrogazione dell’obbligo per i proprietari terrieri di dar passaggio alle condutture elettriche sui loro terreni, loro (CGIL inclusa) fecero esattamente la stessa cosa, con la campagna “NON”.

Invitarono all’astensione di massa per far fallire il quorum.
All’epoca andò al voto solo il 25,6% degli aventi diritto.
E oggi si indignano se succede lo stesso?

Ma vaffanculo, con citazione storica allegata.

Il problema è che la gente ha capito.
Ha capito che questi referendum erano una presa per il culo.
Che servivano più a far campagna per Elly e Landini che a cambiare davvero qualcosa.
Che erano l’ennesimo show ideologico di una sinistra che parla solo a se stessa, si applaude da sola, si elegge a salvezza dell’universo e poi non riesce neanche a riempire le urne.

La trappola della cittadinanza e il boomerang in faccia

Il vero nodo era il quinto quesito.
Cittadinanza italiana agli stranieri dopo cinque anni di residenza.
Tagliando da dieci a cinque. Così, con un colpo di spugna.

Una roba che in qualsiasi altro Paese sarebbe discussa con cautela, con pragmatismo, magari con un dibattito serio.
Qui invece no: slogan, poster, bandiere arcobaleno, e accuse preventive a chiunque non fosse d’accordo.
Sei contro? Allora sei razzista, fascista, ignorante. Il solito teatrino.

Ma la verità è che nemmeno gli stessi italiani di sinistra erano convinti.
Perché anche a sinistra ci sono quelli che dicono:
sì, ok, integrazione, ma magari con calma.
E quando la tua base comincia a pensare che sei rincoglionito, vuol dire che hai sbagliato strada.

Il lavoratore italiano ha capito. E ha detto no. O meglio: ha detto niente. Che è peggio.

Sul lavoro, i quesiti sembravano scritti da un comitato di dottorandi in sociologia senza esperienza di fabbrica.
Reintegro, responsabilità solidale, indennità, contratti.

Sulla carta, condivisibile.
Ma nel mondo reale la gente è stanca di fuffa, vuole soluzioni, non ideologie.

E soprattutto non vuole essere presa in giro da quelli che per vent’anni hanno votato il Jobs Act, il Decreto Dignità, il precariato istituzionalizzato e poi si fingono paladini dei diritti.

E allora niente.
Il muratore ha detto: “ma vaffanculo, io domenica vado al mare”.
L’infermiera ha detto: “preferisco dormire”.
Il ragioniere ha detto: “di nuovo ‘sti cazzo di referendum?”.

E hanno fatto bene.
Perché nessuno si è sentito rappresentato.
Nessuno ha creduto a questo teatrino.

E adesso? Adesso frignano. Frignano male.

Le dichiarazioni post-botta sono da manuale del perdente cronico.
“Il popolo non ci ha capiti”, “serve più comunicazione”, “siamo stati sabotati”.

Già li vedo: assemblee, riunioni, autocritiche, e poi di nuovo in piazza, come se nulla fosse.
L’autoreferenzialità è una malattia terminale.
E la sinistra italiana è in fase terminale da almeno 15 anni.

C’erano una volta i diritti. Oggi c’è solo retorica.

Il paradosso è che le battaglie sul lavoro e sulla cittadinanza sono cose serie. Serissime.
Ma sono diventate il paravento per la propaganda.

La sinistra italiana – quella che si riempie la bocca con parole tipo “diritti”, “giustizia sociale”, “uguaglianza” – ha trasformato tutto in una farsa.

E chi si accorge della farsa, se ne va. Non vota. Sta zitto.
Ma in quel silenzio c’è più dissenso di mille vaffanculo gridati.

Morale della favola? Quando fai i referendum per sembrare vivo, poi non piangere se ti trattano da morto.


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