Quando uno striscione diventa più pericoloso di una sassaiola: cronaca di una parola vietata tra i divani della sinistra.
di Rina Passe
ATTENZIONE: Questo articolo non è per anime belle, democratici con la bandiera arcobaleno, preti con l’iPhone e femministe col pisello. Se la parola “remigrazione” ti fa venire le emorroidi morali, se confondi un cazzo di striscione con un colpo di Stato, o se pensi che l’antifascismo si pratichi pisciando sui monumenti e zittendo chi paga le tasse, allora levati dal cazzo. Qui si scrive per chi ha ancora le palle (o l’utero) per dire che l’Italia non è una cazzo di mensa self-service per chiunque sbarchi. Se ti senti offeso: bene. È esattamente ciò che speravamo.
Succede a Gorizia, una di quelle tante città nelle quali il vero reato è dire la verità. Ieri sera, sopra la Galleria Bombi, un manipolo di estremisti dell’ultra destra – estremisti perché italiani e non inginocchiati davanti al totem del belpensiero da fricchettone – ha osato srotolare uno striscione con una parola che fa più paura del vaiolo: REMIGRAZIONE.

Sì, avete letto bene. Non “pace”, non “diritti”, non “inclusione” o qualcuna di quelle più accettabili puttanate arcobaleno tanto care alla sinistra italiana. Hanno scritto “remigrazione”. Una bestemmia così vietata che, a pronunciarla in certi ambienti, rischi di trovarti la lavastoviglie in sciopero e il prete che ti rifiuta la comunione.
Il flash mob è durato pochi minuti, giusto il tempo di far venire l’orticaria ai democratici con la schiena a forma di sofà artigianale da 20.000 euri e a qualche associazione di paladini dei diritti di chiunque fuorché i nostri. Eppure, tanto è bastato per scatenare la solita reazione isterica da parte di chi scambia il degrado urbano per folclore etnico e veicolo di integrazione multiculturale.
Ma attenzione: la Digos c’era, occhi aperti e taccuini pronti, come se fosse in corso un summit di narcos colombiani. Il questore Di Ruscio, con la sobrietà che gli riconosco, ha garantito che tutto è stato monitorato. Tradotto: i ragazzi di CasaPound – che inspiegabilmente si son rivelati non essere Satana e i suoi agenti del male – hanno srotolato, posato, ritirato e se ne sono andati senza accoltellare nessuno, senza bruciare cassonetti, senza pisciare sui monumenti senza pestare sbirri o spaccare vetrine. Che delusione per i professionisti dell’antifascismo prêt-à-porter.
Nel frattempo, nelle salette di qualche circolo di intellettuologi, si sono stappate damigiane di Valium, Xanax e Tavor. “È un attacco alla democrazia!”, hanno abbaiato quelli che sfilano ogni settimana con la kefiah a mo’ di foulard, le spranghe antisemite, le bandiere di Hamas, il portafoglio pieno di finanziamenti pubblici e gli applausi di qualche democratico accondiscendente.
Vorrei ricordare a costoro che remigrazione è un concetto che esiste anche in Francia (loro li remigrano scaricandoli in Italia), Germania, perfino in certi cantoni svizzeri. Non è un colpo di stato. È una proposta politica. Ma guai a dirlo qui: se non sei un barbone strafatto dei centri sociali, non conti. Se paghi le tasse, sei invisibile. Se vuoi vivere in sicurezza, sei automaticamente “fascista”.
CasaPound ha fatto né più né meno quello che dovrebbero fare certi politici ELETTI: alzare la voce, FUORI DA TIKTOK e ricordare che c’è un popolo stanco di sentirsi razzista solo perché non vuole trasformare il pianerottolo di casa in un centro d’accoglienza per clandestini che tutto vogliono meno che integrarsi. E che se lo fa con uno striscione, invece che con le molotov o con le risse tra bande, forse è il caso di ringraziarli per l’educazione.
Chi grida allo scandalo farebbe meglio a passare una sera in periferia, senza cagarsi addosso se ha dietro qualcuno e senza le solite maschere ideologiche da antifascisti quanto basta. Poi ne riparliamo. Magari proprio davanti a uno dei nuovi “ospiti” che usano i sottopassaggi come bagno turco e, con tanto di decreti di espulsione pendenti, sono ancora in giro a sbronzarsi ammerda e a rompere il cazzo.
In conclusione, grazie a Di Ruscio per aver ricordato a tutti che lo Stato vede, sa e non si scompone. E grazie a CasaPound per averci ricordato che anche in Italia esistono ancora persone disposte a dire cose scomode, senza travestirle da inclusività glitterata.